Il futuro dell’innovazione attraverso le tendenze del nuovo mondo
Abbiamo intervistato Fausto Maglia, Chief Product Officer di Casavo, per discutere dell’ecosistema tecnologico italiano in funzione dei trend in arrivo dagli Stati Uniti.
FT: Ciao Fausto, ti ringrazio per la disponibilità ed iniziamo come di consueto con una breve presentazione dell’intervistato.
FM: Ciao Diana, grazie per avermi contattato. Sono Fausto Maglia, ho 30 anni e come molte persone che si occupano di prodotti tecnologici ho avuto un percorso professionale abbastanza variegato sempre a cavallo tra marketing e tecnologia, prevalentemente in startup tech che si occupano di turismo e big data (Travel Appeal a Firenze, Dashbell a Boston) ma anche in grandi multinazionali più orientate al mondo delle telco (Dixons Carphone a Londra). Ho una laurea in digital humanities (Università di Pisa), un master in comunicazione e marketing per le imprese (Università di Siena) e sto attualmente frequentando un part-time MBA presso il LUISS Hub di Milano.
FT: Partiamo dal tuo ruolo di Chief Product Officer, non tutte le aziende hanno un responsabile di prodotto, perché trovi sia un ruolo fondamentale in una startup?
FM: Ti ringrazio per la domanda che trovo molto interessante. Non credo che figure di prodotto siano fondamentali in tutte le startup, ma trovo che siano fondamentali quando:
• La startup sviluppa uno o più prodotti tecnologici che sono di primaria importanza per il business e che devono essere utilizzati da utenti finali (sia nel caso di prodotti B2B che B2C);
• Il management dell’azienda non ha già uno skillset consolidato per lo sviluppo di prodotti tecnologici;
• Quando l’azienda raggiunge una dimensione tale per cui il management non riesce più a seguire tutte le tematiche con attenzione (e allora è fondamentale che ci sia estrema fiducia tra responsabile di prodotto e CEO).
In Italia in generale c’è ancora una scarsa cultura di prodotto. A me il ruolo di Product Manager fu proposto per la prima volta in Travel Appeal ed ero piuttosto titubante perché non sapevo bene come avrei potuto spendermi successivamente nel mercato del lavoro italiano. Mi innamorai poi del ruolo perché mi permetteva di stare all’intersezione di business e tecnologia. A Londra trovai invece un ecosistema molto florido in cui il product management era una competenza ricercata e desiderata a livelli paragonabili a quelli del software development.
L’Italia è ancora indietro rispetto a nazioni come Germania, Francia, UK e US e in Casavo ce ne accorgiamo bene per la difficoltà che abbiamo nel trovare product manager preparati. Considera che – delle ultime 4 offerte di lavoro come PM che abbiamo inviato – soltanto una era destinata a una persona che lavora attualmente in Italia.
Ci sarebbe molto altro da dire al riguardo, ma concludo la risposta menzionando il fatto che molte aziende e molte persone anche qualificate ancora hanno difficoltà a passare da una mentalità di progetto a una di prodotto, e anche chi ci riesce a volte è legato a dinamiche tradizionali, risalenti a quando i prodotti avevano un ciclo definito da fasi molto chiare che prevedevano un inizio e una fine della produzione e della commercializzazione del prodotto; oggi invece (basti pensare a YouTube, che ormai ha 15 anni) i prodotti tecnologici hanno un ciclo di vita tendente all’infinito, perché le aziende li aggiornano costantemente sulle base delle necessità emergenti del mercato. In questo senso, il CPO non solo si occupa di far evolvere i prodotti così da garantire longevità, ma si occupa anche di trasmettere questo tipo di cultura all’interno dell’azienda.
FT: Vediamo quindi secondo te qual è il trend più interessante che stiamo importando dagli Stati Uniti…
FM: Dipende dal settore di cui stiamo parlando, ovviamente. In generale però il nostro paese, come dicevo anche poco fa, sta importando dalle altre regioni innovative d’Europa e del mondo una cultura seria di sviluppo di prodotti tecnologici. Vedo due grandi temi che ancora non abbiamo scardinato ma che pian piano stanno dando segnali incoraggianti:
- L’approccio narrativo che soffoca quello attuativo: la Silicon Valley ci ha mostrato come la tecnologia possa diventare il cuore pulsante dell’economia con storie molto avvincenti di ragazzi partiti dai propri garage e diventati CEO di aziende tra le più importanti al mondo. La verità però è che la tecnologia è difficile da comprendere e soprattutto è difficile da concretizzare e far fruttare. In Italia siamo ancora in una fase in cui si parla molto di trasformazione digital e innovazione senza badare alla qualità di ciò che viene realizzato. Questo è alla base di molti casi di insuccesso nella trasformazione digitale ma la sensazione è che ci sia una nuova generazione di imprenditori più sensibile al riguardo.
- L’accettazione che, oggi, le aziende devono essere principalmente tech companies e solo successivamente debbano specializzarsi in qualche settore specifico. Qui rubo le parole di Satya Nadella, CEO di Microsoft, che dice “In futuro non esisteranno più aziende standard e aziende tech, ma che esisteranno aziende tech specializzate nella realizzazione di certi prodotti che, magari, saranno i soliti che conosciamo oggi.” Casavo è un esempio di questa tendenza: non siamo una società immobiliare che si è digitalizzata, ma una tech company che opera nel mercato immobiliare. Per di più non siamo gli unici in Italia oggi ad avere questo tipo di approccio.
FT: La domanda opposta, ti viene in mente un’innovazione dell’ultimo decennio che sembrava promettente ma non è riuscita a decollare e diffondersi?
FM: Ci sono molte più startup che falliscono rispetto a quelle che hanno successo. Il punto è che dal fallimento si impara molto e questo aiuta i fondatori a migliorarsi ad ogni tentativo (lo stesso concetto che è alla base di filosofie come la lean startup); non a caso è nata la categoria degli “imprenditori seriali”. Una dimostrazione di questo ce la dà Google, che della cultura del fallimento ha fatto un punto di forza, rilasciando e poi ritirando prodotti come Wave, che doveva uccidere l’e-mail, o Google Glass (anche se forse non è detta l’ultima parola). Un altro fallimento famoso è stato quello di Segway, che negli Stati Uniti raccolse ingenti investimenti promettendo di cambiare la mobilità urbana fallendo miseramente. C’è Webvan, che nel 2001 voleva fare ciò che oggi fa Amazon, ma adottò appunto un approccio di progetto anziché uno di prodotto e fallì (forse anche perché il mercato non era pronto). C’è Flytenow, l’Uber dei voli privati, che invece è stata “lasciata a terra” da regolamenti ambigui e sfavorevoli. Così come accade nei processi evolutivi della natura, però, i fallimenti servono proprio a selezionare le idee vincenti.
FT: Casavo stessa nasce dal trend americano degli iBuyer, quali sono stati i fattori di adattamento del prodotto più complicati da gestire nel mercato italiano?
FM: Direi principalmente due:
1- Il lavoro degli instant buyer si basa sulla costruzione e sul miglioramento degli AVM (Automated Valuation Model), che permettono di stimare il valore di una casa a partire dall’inserimento di alcuni parametri (indirizzo, superficie dell’immobile, anno di costruzione, piano a cui si trova l’immobile ecc.). Per valutare bene un immobile in questo modo c’è bisogno di avere a disposizione molti “comparabili”, ovvero immobili con caratteristiche simili nelle vicinanze. In questo il mercato italiano (e Europeo in generale) sono molto più complessi di quello US perché il nostro stock immobiliare è più eterogeneo. Pensa per esempio ai classici viali delle città statunitensi con le case tutte uguali a destra e a sinistra e paragonali alle vie delle nostre città, con immobili costruiti in modo variegato nel corso di secoli.
2- La cultura della casa: negli Stati Uniti si cambia casa spesso, mentre in Italia lo si fa più raramente. Alla casa quindi ci si lega e di frequente rappresenta la fetta principale del patrimonio del cittadino medio. Ci sono voluti molti sforzi ma credo che adesso, almeno nei mercati da noi serviti, siamo riusciti a spiegare che Casavo è una soluzione valida per molti venditori che inizialmente non volevano cedere la propria casa a un’azienda o temevano di ottenere un’offerta troppo distante dal valore di mercato.
FT: Cosa pensi invece del fenomeno PropTech? Come pensi stia crescendo in Italia?
FM: Qui il trend è chiaro: i fondi di Venture Capital hanno investito per anni in aziende che sviluppavano prodotti puramente tecnologici, perché chiaramente avevano bisogno di minori capitali e quindi esponevano a rischi più bassi. Con la saturazione che c’è stata nello sviluppo di quel tipo di prodotti, i fondi hanno iniziato gradualmente a valutare nuove opportunità di investimento e, complice anche lo sviluppo di nuove tecnologie, una maggior alfabetizzazione digitale dei consumatori e una maggiore preparazione degli imprenditori, nuovi settori sono stati impattati dall’avvento della tecnologia. Oggi il proptech è ancora lontano dagli investimenti ottenuti dal fintech, ma il pattern di crescita è simile anche se c’è un ritardo. Io trovo che il mercato immobiliare sia ancora fermo su logiche estremamente tradizionali: fino a qualche anno fa, le opzioni per vendere e comprare casa che avevamo noi erano più o meno le stesse che avevano avuto i nostri genitori. Noi ci stiamo ovviamente impegnando per cambiare la situazione e il lancio dell’app per le visite da remoto (con cui abbiamo già acquistato 4 appartamenti nel periodo della pandemia, realizzando 80 visite) e il rilascio della nostra nuova vetrina di annunci orientata ai millennial e ai broker immobiliari che fanno un lavoro di qualità, sono soltanto le ultime innovazioni a cui abbiamo lavorato.
In Italia ovviamente c’è grande spazio per il proptech: siamo uno dei paesi più interessanti al mondo per il mercato immobiliare residenziale grazie alla cultura di investimento nel mattone degli italiani. Il 92% del mercato è in mano ai privati e mese dopo mese sempre più player si stanno affacciando con nuove proposte, dai broker digitali a chi propone soluzioni innovative per l’affitto.
FT: Cosa consiglieresti ad un giovane appassionato del mondo tech?
FM: Limito la riflessione a chi, come me, ha sempre avuto una passione per il mondo tech senza però voler essere uno sviluppatore. Nel mio caso, l’interesse per il business era troppo forte per dedicarmi totalmente allo sviluppo software, anche se sono stato tentato.
Il consiglio principale è di leggere ciò che offre la letteratura: Clayton M. Christensen, Nir Eyal, Eric Ries, Marty Cagan e gli autori di “Play Bigger” sono i primi nomi che suggerirei. Consiglio poi, se non si ha la possibilità di seguire un percorso di carriera chiaro (non ci sono molte Google o Netflix qui da noi), di attivare dei side project per poter fare esperienza, e di fare magari un’esperienza all’estero nei grandi hub di innovazione digitale (Londra, Berlino, Amsterdam, Parigi ma recentemente anche Barcellona).
Il consiglio principale però è di non lasciarsi troppo affascinare da chi racconta le storie “romanzate” di startup di successo, perché si rischia di unirsi alla schiera di storyteller che l’innovazione la narrano soltanto. Come tutti gli altri percorsi anche quello nel mondo tech è in salita ed estremamente serio, e c’è bisogno di persone che abbiano voglia di apprendere, essere visionarie, ma che poi sappiano concretizzare tutto con razionalità.