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INTERVISTA ALL’AVVOCATO GIOVANNI CUCCHIARATO SUL CROWDINVESTING

In questi giorni è stato pubblicato il 5° Report Italiano sul CrowdInvesting, abbiamo chiesto all’avvocato Giovanni Cucchiarato di commentare i risultati emersi.

FT: Siamo arrivati al 5° Report Italiano sul CrowdInvesting, si aspettava una crescita simile quando è stata pubblicata la prima versione della ricerca?

GC: È una domanda a cui non è facile rispondere. 

Nell’estate 2016, quando l’Osservatorio sul Crowdinvesting del Politecnico di Milano, brillantemente guidato dal Prof. Giancarlo Giudici, ebbe la felice intuizione di fare una prima “fotografia” del mondo del crowdinvesting in Italia, il contesto regolamentare era profondamente diverso rispetto a quello attuale e non si poteva immaginare quale sarebbe stata la sua evoluzione ed il relativo impatto sulla crescita del settore. 

Per quanto riguarda il lending crowdfunding, ad esempio, non erano ancora state emanate le “Disposizioni” di Banca d’Italia sul “social lending”, che (pur in assenza di una normativa ad hoc) hanno fornito alcune linee guida agli operatori sull’esercizio di tale attività. 

Per non parlare dell’equity crowdfunding, che all’epoca era ancora riservato alle start-up innovative, mentre dal 2017 la possibilità di utilizzare tale strumento di finanza alternativa è stata estesa a tutte le piccole e medie imprese (cd. PMI, che in Italia rappresentano una vasta platea di aziende), a prescindere dalla loro “innovatività”, rendendo così possibile, ad esempio, la nascita del real estate equity crowdfunding. Sempre con riferimento all’equity crowdfunding, sono state recentemente introdotte altre importanti novità, in primis la possibilità di sottoscrivere tramite i portali autorizzati non solo strumenti di equity, ma anche (a determinate condizioni e per determinate categorie di investitori) strumenti di debito (bond) emessi da PMI.

Per tornare ora alla Sua domanda, se nel 2016 avessi saputo come si sarebbe evoluta la normativa nei quattro anni successivi, forse mi sarei aspettato una crescita ancora maggiore (quanto meno in termini di volumi). Vi sono infatti a mio avviso alcune novità introdotte a livello regolamentare – soprattutto con riferimento all’equity crowdfunding – che (almeno per ora) non hanno ancora espresso tutto il loro potenziale.

FT: Rispetto agli anni precedenti cosa stupisce di più di questo nuovo report? Quanto ha impattato lo stop del lockdown?

GC: In termini generali i dati dell’ultimo anno raccolti nel report confermano un trend di crescita del settore che non mi stupisce più di tanto. Personalmente mi aspettavo forse un maggiore incremento di campagne di equity crowdfunding effettuate da PMI “tradizionali” (rispetto alle start-up innovative, che continuano a fare la parte del leone), e un primo “avvicinamento” da parte degli organismi di investimento collettivo del risparmio, ancora restii ad utilizzare questo nuovo strumento di raccolta del risparmio.

Per quanto riguarda la crisi legata al Covid-19, dai numeri del report emerge come il settore non ne sia stato impattato, il che a mio avviso non deve stupire, dal momento che le aziende hanno avuto probabilmente modo di scoprire ed apprezzare alcune caratteristiche del crowdinvesting, come ad esempio la rapidità nell’erogazione della liquidità, che lo differenzia (in positivo) rispetto alle tempistiche tipiche dei canali tradizionali come quello bancario.

FT: Quale tra le diverse forme di crowdinvesting ha le maggiori prospettive di crescita nel 2021?

GC: In termini percentuali credo che l’equity crowdfunding potrà crescere di più rispetto al lending (che resterà in ogni caso ampiamente davanti in termini di volumi), però solo se verranno sfruttati al meglio i vantaggi derivanti dalle novità regolamentari introdotte negli ultimi anni e gli operatori più “tradizionali” (come ad esempio gli OICR) sapranno coglierne le opportunità. 

FT: Ragionando invece a livello europeo cosa rende più competitiva l’Italia per una società fintech che gestisce un portale di crowdinvesting e cosa la rende meno competitiva?

GC: A mio avviso il quadro normativo che abbiamo in Italia sul crowdinvesting è una buona base di partenza e, se verranno implementate alcune novità regolamentari in fase di definizione (come il decreto attuativo della “sandbox” regolamentare sul fintech), può facilitare l’attrazione di operatori stranieri nel nostro paese. Un altro elemento che rende il nostro Paese competitivo è la grande quantità di risparmi delle famiglie, che vengono spesso lasciati “parcheggiati” sui conti correnti bancari e che rappresentano una massa molto rilevante di potenziali investitori per i gestori dei portali di crowdinvesting. 

I fattori che rendono meno competitiva l’Italia rispetto ad altri paesi europei sono rappresentati dai nostri difetti “endemici”, quali ad esempio la persistente eccessiva burocratizzazione della pubblica amministrazione, che rende difficile fare impresa nel nostro Paese, oltre che, per andare più nello specifico del settore del crowdinvesting, la scarsa educazione finanziaria di noi italiani, più volte posta in evidenza anche da Consob e Banca d’Italia.

FT: Cosa serve quindi all’Italia per attirare la prossima fintech unicorno? O cosa gli manca per non farsela scappare?

GC: Un (vero) cambio di mentalità, che porti ad una riforma generale della pubblica amministrazione, tramite la digitalizzazione e la semplificazione, nel rispetto del principio di proporzionalità, dei processi amministrativi ed autorizzativi.

FT: Consiglierebbe a un ragazzo di entrare nel mondo fintech o prima lavorare nel settore della finanza classica?

GC: Iniziare con un’esperienza presso un operatore “tradizionale” è sicuramente utile, anche se credo che le due cose non siano per forza in contraddizione tra loro. Lavorare nel mondo fintech non è altro che operare nei settori tipici dei mercati finanziari tradizionali, ma tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie.